lunedì 16 novembre 2015

Geneviève

16.11.2015
Era stata una brutta giornata, pessima davvero. Si era svegliato la mattina presto, alle cinque e mezza, in un letto vuoto, il suo, unico arredo nella stanza minuscola assieme ad un piccolo armadio di legno. Lui era molto disordinato in genere, anche la sua camera sarebbe stata a soqquadro, se ce ne fosse stato lo spazio, ma era troppo piccola per la confusione.
Tutte le mattine la solita storia da una settimana a quella parte: il trillo della sveglia del telefono, gli occhi socchiusi e la consapevolezza che Lei non c’era al suo fianco. L’aveva lasciato dopo l’ennesima sbronza, ma quella volta aveva esagerato: era tornato dopo aver bevuto come una spugna, insieme ad un’altra, si era dimenticato di avere già la donna della sua vita a casa ad aspettarlo. Allo stesso modo, Lei, aveva deciso di dimenticare lui.
Non era il tipo da piangersi addosso, aveva vissuto una vita difficile, conosceva il dolore vero, poteva superare quello di una stupida ferita d’amore. Un letto vuoto non era un buon motivo per non iniziare bene la giornata; nemmeno il giorno sfortunato, venerdì 13, lo era.
Si alzò, andò in bagno a prepararsi: schiuma da barba finita. Poco male, si era rasato due giorni prima, la barba era ancora corta, circolare, correva attorno alla sua bocca.
Uscì di casa senza aver fatto colazione, il giorno prima si era dimenticato di fare la spesa. Meglio così, avrebbe perso meno tempo da dedicare a ciò che faceva ormai tutti i giorni da una settimana a quella parte: cercare lavoro. Con Lei, se n’era andato anche il suo impiego precedente, dato che lavorava come muratore per quello che un giorno, forse, se le cose fossero andate diversamente, sarebbe stato suo suocero.
La ricerca fu vana anche quel giorno. La crisi gli precludeva tante possibilità, lui non aveva studiato tanto da ragazzo, non aveva avuto i mezzi per farlo, in più era di colore e molte aziende seguivano una politica discriminatoria, certo non lo dicevano apertamente, ma tutti sapevano che dietro alcuni “stiamo cercando qualcosa di diverso” si nascondeva un “stiamo cercando qualcuno di bianco”. Si era dimenticato di mangiare a pranzo, così all’ora di cena si precipitò in un fast food con un amico e mangiarono tanto, male, a poco prezzo.
“Sylvestre”
“Eh?”
“L’hai più sentita Geneviève?”
“No”
“È stato venerdì scorso, neh?”
“Il venerdì non è il mio giorno fortunato”
“Mmh... Brutta giornata?”
“Pessima”
“In America venerdì 13 porta sfiga”
“Meno male che siamo a Parigi allora”
“Vive la France”
Dopo cena uscirono a fare un giro e a prendere una birra, una sola, Sylvestre non aveva più molta volta di alcol dall’ultima volta. Inoltre erano di fretta, Lucas, il suo amico, doveva andare a vedere una partita allo stadio, Francia-Germania. Sylvestre lo accompagnò fino allo stadio.
“Mi dispiace lasciarti da solo, mon ami. Stai bene?”
“Tranquillo, ça roule, gira, va tutto bene. Certo, potevi procurarmi un biglietto, stupide! Non credo potrò mai perdonartela”
“Ma finiscila, te l’avevo proposto, due settimane fa! Perchè non hai accettato?”
“Sarei dovuto andare a sentire gli Eagles stasera con Geneviève...”
“Mi dispiace Sylvestre. Lasciala perdere. Ora devo andare”
Si sedette per terra, di nuovo solo, inizió a giocare con lo smartphone. Lui non lo faceva mai, era piú una cosa da Lei. Smise quasi subito e inizió a camminare avanti e indietro, intorno allo Stade de France, terribilmente annoiato. Decise che, forse, un boccale di birra, uno solo, con un amico, avrebbe sollevato la serata. Chiamò Nicolas, ma non rispose: certo, doveva andare anche lui al concerto quella sera insieme a loro e ad Anne Marie, la sua fidanzata. Facevano spesso uscite di coppia, loro quattro.
Si sentì così solo allora, non sapeva piú chi chiamare. I suoi due migliori amici erano entrambi impegnati e lui era lì, fermo, in piedi, irrigidito dal freddo frizzante delle serate di novembre, ad ammirare lo Stade de France che si stagliava imponente di fronte a lui, alle 21.18 di venerdì 13.
Aprì What’sapp, entrò sulla chat di Geneviève: online. Fissò lo schermo per qualche minuto, poi accadde qualcosa. Cosa non lo capiva neppure lui, ma qualcosa stava succedendo. Odore di morte. Sì, morte, non era la classica puzza di bruciato dei petardi, nè quella di fumo dei fumogeni, quello era odore di morte. Rumore di morte. Dove l’aveva giá sentito? Certo, erano spari ed erano tanti, vicinissimi, riusciva a sentirne non solo il boato, ma anche i fischi dei proiettili. Non era la classica rissa da stadio, stava per accadere qualcosa di terribile, l’avrebbero chiamato “l’11 settembre di Parigi” dal giorno successivo. Questo però Sylvestre non lo sapeva. Lui vedeva solo il pericolo. Attorno a lui correvano persone e proiettili. Tutt’intorno il panico. Si mise a correre per inerzia, trasportato dalla folla, ma per paura fece tutt’altro. Per paura non inizió a piangere come un bambino, non cominciò ad urlare come un pazzo.
Le mamme dei cuccioli quando scoppia un incendio, quando percepiscono un pericolo, corrono istintivamente davanti ai loro piccoli, cercano di proteggere la cosa piú cara che hanno difendendola con il loro stesso corpo, con la loro stessa vita.
Per paura Sylvestre chiamò Geneviève.
Proprio in quel momento lo raggiunsero due proiettili. Uno gli sfiorò il ventre, gonfio per tutto l’alcol ingurgitato in vita sua. L’altro mirava alla testa.
L’aveva incontrata 3 anni prima, in rehab. Entrambi avevano impresso nella mente un passato che avrebbe ucciso chiunque, chiunque, ma non loro. Loro erano piú forti della vita e della morte, incontrandosi e amandosi si erano salvati a vicenda. “Ti devo la vita”, capitava si sussurrassero nelle orecchie prima di andare a dormire.
Oggi Sylvestre deve davvero la vita a Geneviève, perchè quel proiettile infranse solo lo schermo di quel telefono con cui la stava chiamando.


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