Era stata
una brutta giornata, pessima davvero. Si era svegliato la mattina presto, alle
cinque e mezza, in un letto vuoto, il suo, unico arredo nella stanza minuscola
assieme ad un piccolo armadio di legno. Lui era molto disordinato in genere,
anche la sua camera sarebbe stata a soqquadro, se ce ne fosse stato lo spazio,
ma era troppo piccola per la confusione.
Tutte le
mattine la solita storia da una settimana a quella parte: il trillo della
sveglia del telefono, gli occhi socchiusi e la consapevolezza che Lei non c’era
al suo fianco. L’aveva lasciato dopo l’ennesima sbronza, ma quella volta aveva
esagerato: era tornato dopo aver bevuto come una spugna, insieme ad un’altra,
si era dimenticato di avere già la donna della sua vita a casa ad aspettarlo.
Allo stesso modo, Lei, aveva deciso di dimenticare lui.
Non era il
tipo da piangersi addosso, aveva vissuto una vita difficile, conosceva il
dolore vero, poteva superare quello di una stupida ferita d’amore. Un letto
vuoto non era un buon motivo per non iniziare bene la giornata; nemmeno il
giorno sfortunato, venerdì 13, lo era.
Si alzò,
andò in bagno a prepararsi: schiuma da barba finita. Poco male, si era rasato
due giorni prima, la barba era ancora corta, circolare, correva attorno alla
sua bocca.
Uscì di
casa senza aver fatto colazione, il giorno prima si era dimenticato di fare la
spesa. Meglio così, avrebbe perso meno tempo da dedicare a ciò che faceva ormai
tutti i giorni da una settimana a quella parte: cercare lavoro. Con Lei, se
n’era andato anche il suo impiego precedente, dato che lavorava come muratore
per quello che un giorno, forse, se le cose fossero andate diversamente,
sarebbe stato suo suocero.
La ricerca
fu vana anche quel giorno. La crisi gli precludeva tante possibilità, lui non
aveva studiato tanto da ragazzo, non aveva avuto i mezzi per farlo, in più era
di colore e molte aziende seguivano una politica discriminatoria, certo non lo
dicevano apertamente, ma tutti sapevano che dietro alcuni “stiamo cercando
qualcosa di diverso” si nascondeva un “stiamo cercando qualcuno di bianco”. Si
era dimenticato di mangiare a pranzo, così all’ora di cena si precipitò in un
fast food con un amico e mangiarono tanto, male, a poco prezzo.
“Sylvestre”
“Eh?”
“L’hai più
sentita Geneviève?”
“No”
“È stato
venerdì scorso, neh?”
“Il venerdì
non è il mio giorno fortunato”
“Mmh...
Brutta giornata?”
“Pessima”
“In America
venerdì 13 porta sfiga”
“Meno male
che siamo a Parigi allora”
“Vive la
France”
Dopo cena
uscirono a fare un giro e a prendere una birra, una sola, Sylvestre non aveva
più molta volta di alcol dall’ultima volta. Inoltre erano di fretta, Lucas, il
suo amico, doveva andare a vedere una partita allo stadio, Francia-Germania.
Sylvestre lo accompagnò fino allo stadio.
“Mi dispiace
lasciarti da solo, mon ami. Stai bene?”
“Tranquillo,
ça roule, gira, va tutto bene. Certo, potevi
procurarmi un biglietto, stupide! Non credo potrò mai perdonartela”
“Ma finiscila, te l’avevo
proposto, due settimane fa! Perchè non hai accettato?”
“Sarei dovuto andare a sentire
gli Eagles stasera con Geneviève...”
“Mi dispiace Sylvestre.
Lasciala perdere. Ora devo andare”
Si sedette per terra, di nuovo
solo, inizió a giocare con lo smartphone. Lui non lo faceva mai, era piú una
cosa da Lei. Smise quasi subito e inizió a camminare avanti e indietro, intorno
allo Stade de France, terribilmente annoiato. Decise che, forse, un boccale di
birra, uno solo, con un amico, avrebbe sollevato la serata. Chiamò Nicolas, ma
non rispose: certo, doveva andare anche lui al concerto quella sera insieme a
loro e ad Anne Marie, la sua fidanzata. Facevano spesso uscite di coppia, loro
quattro.
Si sentì così solo allora, non
sapeva piú chi chiamare. I suoi due migliori amici erano entrambi impegnati e
lui era lì, fermo, in piedi, irrigidito dal freddo frizzante delle serate di
novembre, ad ammirare lo Stade de France che si stagliava imponente di fronte a
lui, alle 21.18 di venerdì 13.
Aprì What’sapp, entrò sulla
chat di Geneviève: online. Fissò lo schermo per qualche minuto, poi accadde
qualcosa. Cosa non lo capiva neppure lui, ma qualcosa stava succedendo. Odore
di morte. Sì, morte, non era la classica puzza di bruciato dei petardi, nè
quella di fumo dei fumogeni, quello era odore di morte. Rumore di morte. Dove
l’aveva giá sentito? Certo, erano spari ed erano tanti, vicinissimi, riusciva a
sentirne non solo il boato, ma anche i fischi dei proiettili. Non era la
classica rissa da stadio, stava per accadere qualcosa di terribile, l’avrebbero
chiamato “l’11 settembre di Parigi” dal giorno successivo. Questo però
Sylvestre non lo sapeva. Lui vedeva solo il pericolo. Attorno a lui correvano
persone e proiettili. Tutt’intorno il panico. Si mise a correre per inerzia,
trasportato dalla folla, ma per paura fece tutt’altro. Per paura non inizió a
piangere come un bambino, non cominciò ad urlare come un pazzo.
Le mamme dei cuccioli quando
scoppia un incendio, quando percepiscono un pericolo, corrono istintivamente
davanti ai loro piccoli, cercano di proteggere la cosa piú cara che hanno
difendendola con il loro stesso corpo, con la loro stessa vita.
Per paura Sylvestre chiamò
Geneviève.
Proprio in quel momento lo
raggiunsero due proiettili. Uno gli sfiorò il ventre, gonfio per tutto l’alcol
ingurgitato in vita sua. L’altro mirava alla testa.
L’aveva incontrata 3 anni
prima, in rehab. Entrambi avevano impresso nella mente un passato che avrebbe
ucciso chiunque, chiunque, ma non loro. Loro erano piú forti della vita e della
morte, incontrandosi e amandosi si erano salvati a vicenda. “Ti devo la vita”,
capitava si sussurrassero nelle orecchie prima di andare a dormire.
Oggi Sylvestre deve davvero la
vita a Geneviève, perchè quel proiettile infranse solo lo schermo di quel
telefono con cui la stava chiamando.
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